dipinto di Pietro Rotari
Premetto che ci sarebbe da fare un trattato sull'argomento, ma voglio esternare solo delle considerazioni. In tanti anni di incontri e scontri con i difficilissimi animi degli scrittori, esordienti, emergenti, rifulgenti e decadenti, mi sono fatta questa idea sullo SCRIVERE PER SE STESSI. Naturalmente non nego che sia terapeutico, ma allora basta un diario.
Lo scrittore, in genere quasi tutti quelli a cui lo chiedi, sin da piccolo amava leggere molto e cercava di cimentarsi in storie sue, perché affascinato dai libri. Divenuto adulto ha continuato a leggere e scrivere provando interesse e piacere a inventare e raccontare storie, vivendole lui stesso a tal punto da voler condividere la gioia e quindi emozionare e intrattenere un pubblico, affrontando tematiche che lui stesso sente, elabora, avverte come costruttive o solo divertenti. Egli, come tutto il genere umano, è un animale sociale e ha in sé la necessità di sperimentare, condividere, parlare, confrontarsi. Ecco dunque che per me, lo scrittore che scrive solo per se stesso, cioè compiacendosi di se stesso, o sfidando solo se stesso, è anormale; cioè è come se si masturbasse, e tenesse per sé il suo piacere o le sue scoperte. Le cause possono essere molte, anche comprensibili; dalle ferite e le disillusioni subite al puro egoismo, dalla paura di non essere all'altezza all'eccessiva considerazione di sé. Resta il fatto che, pure non avendo nulla da obbiettare a una sana masturbazione, io rimango sempre un po' perplessa davanti a chi dice di scrivere solo per se stesso (intanto lo proclama, cioè lo rende pubblico...) e quindi non condivide una emozione ( o la cerca?). Certo uno è libero di riempire migliaia di pagine word che non potremo mai leggere, ma io penso invece, che anche nella scrittura, sia, non dico meglio ma piacevole, sperimentare un amplesso a due, tre, mille per rimanere in tema. Cioè scrivere e confrontarsi con un pubblico, donare divertimento, idee, giocare con le parole e stimolare la creatività di un lettore. Quando questo canale di piacere reciproco si interrompe perché non si arriva al lettore per cause oggettive (scarsità di diffusione, mancanza di interesse su un tema da parte del lettore, eccessiva offerta rispetto a una piccola domanda di libri, nessun santo all'ufficio stampa e quindi invisibilità), ecco allora che comprendo di più e ritengo essere più logico e sano lo scrittore frustrato, che quello menefreghista che si proclama immune dalla gioia della condivisione. Arrivare a un pubblico, che non sia solo condominiale, è infatti una necessità istintiva per dar vita a una comunicazione di idee e sentimenti. Ormai tutti siamo consci che non si scrive per la fama, né per guadagnare ( infatti pochi campano di scrittura) ma negare che si scriva per essere letti da qualcuno non mi sembra onesto, infatti almeno uno che ci legge e per cui scriviamo c'è: noi stessi. Questo a dimostrare che, anche se sdoppiati, di un lettore esterno abbiamo bisogno.
Posso accettare che momentaneamente sia possibile, come un amante distaccato o stufo, in pausa di riflessione, scrivere e riflettere sulla scrittura. Comprendo che per sei mesi o un anno ci rinchiuderemo a scrivere per noi stessi. Ma lo interpreto come se, piantato un seme, lo dovessimo coltivare.
Ho conosciuto centinaia di aspiranti scrittori, e certamente ognuno a un punto della vita si è dovuto confrontare su ciò che ha realizzato e che desidera. Ciò che ha ottenuto e ciò che ha dato. Ebbene alla fine, anche se disincantati, pochi mollano del tutto, anche se dicono con rassegnazione di scrivere per se stessi. Come amanti delusi si rinchiuderanno un poco in sé, ma poi proveranno a trovare l'amato in un altro pubblico di lettori che non sia loro stessi. E continueranno a scrivere, raccontare e cercare la loro sposa, e come tutte le storie d'amore, una volta sposato un gruppo di lettori e arrivati al grande pubblico, diranno che vogliono divorziare! Scherzo...non lo faranno mai.